Saluti. Cronache dal Corona virus. 15.

Oggi ho salutato i miei ragazzi di Quarta. Ragazzi che conosco bene, alcuni da cinque anni almeno, e gli ho dato appuntamento esattamente fra tre mesi. Ora, è proprio strano come si alternino le stagioni in quest’ultimo, particolare anno. Tre mesi. Quanto una stagione. Tre mesi, quanto il tempo che è trascorso da quando, quel 4 marzo, ci eravamo salutati per rivederci il giorno successivo. Ho cercato di ricordare cosa avessimo fatto esattamente quel mercoledì. Mi sono sforzato, a lungo, di disegnare i particolari di una giornata che allora era trascorsa nella più assoluta normalità. E poi mi sono ricordato. Quel giorno era successo di tutto. Alla prima ora, mentre ancora quei ragazzi eternamente svogliati si svegliavano appena, stropicciandosi gli occhi, avevo parlato delle Ultime lettere di Jacopo Ortis. Perché l’avevo fatto? Una crudeltà del genere doveva avere una motivazione chiara, ancorché contingente. Comunque, dopo una breve pausa, dovevo essermene reso conto perché avevo preso a parlare della nascita del romanzo, così, a braccio, leggendo passi di Defoe, citando le riviste dell’epoca, proiettando brevi documentari sulla nascita delle rotte commerciali in Inghilterra. Affascinandoli. E, per una volta, interessandoli a una materia che avevano sempre trovato terribilmente noiosa. Ecco il motivo per cui mi ero accanito quella mattina. Quell’inguaribile avversione della classe alla letteratura, che tanto mi indignava, soprattutto la sera, quando, ripensandoci, mi arrovellavo su di essa e promettevo esemplari vendette. Eppure, in classe, quel risentimento si era trasformato in empatia. Oggi, i ragazzi hanno dato le ultime verifiche. È stata una passerella di esposizioni stentate, dettate unicamente dalla fretta di chiudere prima della successiva videolezione. Oggi è finito l’anno, ma a Settembre si ricomincia. In classe.

Oggi la Quinta non l’ho salutata. Ci rivedremo tra dieci giorni. Forse anche la settimana prossima, per rincuorarci a vicenda. Prima di incrociarci fisicamente all’Esame. Ieri gli esperti ci hanno spiegato come. Sembrava il piano di un’esercitazione militare. Il responsabile della Sicurezza appariva preoccupato, schiacciato quasi dagli obblighi che l’ultima ordinanza sulle misure di contrasto alla diffusione del Covid gli aveva fatto cadere addosso. Si trattava di garantire quattro postazioni con ingressi e uscite differenziate, diceva, nonché processi di sanificazione estenuanti ogni qualvolta ogni pedina di questo complesso gopang si sarebbe spostata. Di fronte alle giustificate obiezioni dei suoi colleghi lui ribadiva ostinatamente la necessità, da parte del candidato, di arrivare a scuola senza alcun oggetto se non il documento personale, al massimo una pen drive e una bottiglietta d’acqua sigillata. Ho sofferto per lui. Ho sofferto per me, pensando all’obbligo della mascherina, ai tragitti obbligati da percorrere, alla reclusione nell’aula d’esame, ma soprattutto a quei due metri che mi divideranno dai ragazzi, privandomi dell’abbraccio che ho sempre regalato a un futuro che ci avrebbe definitivamente diviso. Con la classe non ho parlato di questo, c’era da comprendere il dramma dell’Albatros e dei rondinini. Smussare i giudizi che negli anni avevano aggiunto banalità ai versi sorti spontaneamente dagli animi feriti di quei poeti ingenui.Con la classe ci rivedremo la settimana prossima, e anche quelle A e quelle O impresse sugli schermi ci faranno sempre pensare alle vocali di un giovane ebbro che predicava a Parigi piuttosto che alle sigle di un esame segnato dalle regole e dalla paura. Lì segneremo il distacco tra un anno che non vogliamo comunque si chiuda e un’appendice oscura, misteriosa, che ci fa sentire più cavie che eroi.

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