Scuola 2.1.

Non sono più un ragazzino di primo pelo, ma al primo collegio di quest’anno, per la prima volta dopo tanti anni, troppi mesi di non scuola, qualche giorno d’angoscia, ero quasi felice di cominciare un nuovo anno.
Dopo un’estate rigenerante, non mi mancava certamente la Dad, quelle lunghe cerimonie per apparire pronto e passabile al filtro delle telecamere, il rischio di mandare in onda i suoni della famiglia, la goffaggine nell’aprire il collegamento, e così vedere era bello, anche se toccare vietato e il futuro guastava la gioia.
Appena si girava l’angolo, infatti, si era risvegliati dalla batteria di dispenser all’ingresso delle aule e impossibile era pensare che tutto potesse continuare come nei primi, ottimistici giorni.
L’unica cosa certa di quest’inizio di anno scolastico era che i ragazzi non avrebbero più potuto fare i ragazzi.
Non si sarebbero più incrociati con gli amici degli altri corsi all’ingresso, non si sarebbero dati più pappine all’uscita, non avrebbero potuto più dirsi nelle orecchie i segreti tenuti compressi per ore. Nessuno avrebbe aspettato più il compagno reo d’averlo provocato in classe per fargliela pagare, e in autobus al massimo avrebbe potuto regalargli uno sguardo triste e impotente.
La merenda avrebbe dovuto portarsela da casa, e la mascherina pure, e non avrebbe potuto togliersela se non per chiedere al professore di alzare la voce, che con questi bavagli si perde pure il suono delle parole.
L’unica cosa certa di quest’inizio di anno scolastico era che i ragazzi, in queste tre, o cinque ore, di quarantacinque o di cinquanta minuti, avrebbero dovuto rispettare le regole soltanto per paura, pura, incomprensibile, banale paura.
Nonostante ciò questo rientro in presenza era già un successo, e dagli stessi ragazzi, pur imbavagliati e immobili, è stato vissuto come tale. Così, sentirsi dire: “Prof, ci manda sulla piattaforma un compito da fare”, è stata una sorta di rivoluzione copernicana, senza eguali. Come se paradossalmente il punto più basso dell’esperienza scolastica degli ultimi anni abbia generato naturalmente una consapevolezza nuova. Che la scuola sia per tutti il valore più importante, nonostante la classe perfetta sia ora rappresentata da un gruppo di dodici alunni distanziati e immobili, e con le mascherine tirate su come il regolamento prevede. D’altronde il lockdown ha fatto i suoi danni, e anche se non lo vogliono ammettere loro sono contenti d’essere a scuola. Certo, le regole impongono un’osservanza ferrea, a cui non sono abituati, ma dopo un po’ è solo una questione di ritmo.
Mascherina, distanziamento, dispenser… mascherina, distanziamento, dispenser.
C’è chi si chiede che senso abbia tutto questo, se poi, oltre il cancello, si ammassino tutti sui pullman stipati, ma la scuola deve dare l’esempio, e in fondo questo è il ruolo che le compete.
Ogni storia, anche la più brutta, ha la sua percezione più profonda.
Questa è ancora inafferrabile, ma non è lontana dall’essere compresa. L’emergenza si pratica sul campo, non in teoria. Chi critica la coraggiosa ostinazione dell’istituzione scolastica a volerci provare, non ne ha capito la funzione più profonda, che è quella di favorire le dinamiche sociali più complesse per curarle, e guidarle al risultato migliore.
Si vocifera di classi, di scuole chiuse, ma la sfida più grande dev’essere quella di abbattere le paure con la volontà di resistere, aggrapparsi a un’aula, una Lim, un tablet che potrebbe salvarci la vita.
“Prof, ma quest’anno ci saranno i laboratori, i Progetti, l’alternanza?”, queste sono le domande più belle, e già poter rispondere di sì rappresenta una vittoria senza eguali.

Auguri, Diego!

Oggi Diego Armando Maradona compie 60 anni.
El pibe de oro, che con i suoi tocchi da funambolo e la sua intelligenza tattica, negli anni ’70 e ’80 aveva incantato il mondo, in Argentina prima, in Spagna e in Italia dopo, è entrato in quella fase della vita in cui le sue doti non possono più far dimenticare la debolezza tipica dell’uomo.
Eppure, il mistero di un grande, il suo fascino in fondo è tutto nelle sue contraddizioni. Come può un calciatore dalla vita sregolata, dedito pesantemente alla droga, essere diventato un mito? E Diego lo è, icona della memoria, riferimento dei ricordi di un’intera generazione.
Basterebbero quei due goal all’Inghilterra, così diversi eppure così perfetti e iconici nella successione stretta di una sola partita di calcio a spiegarlo. Il più bello, poi definito addirittura goal del secolo, appena dopo un altro altrettanto famoso deviato con la mano. E in questi due episodi in un certo qual modo è riassunta l’intera personalità di Maradona, divino con la palla al piede, sregolato appena la tensione del gioco si spegneva.
Come a Napoli, dove negli anni in cui raggiunse l’apogeo della sua carriera fu addirittura sospettato di frequentazione con i boss camorristi o dove, soprattutto, è diventato un mito per il suo popolo che, si sa, è molto viscerale… e poi la vita sregolata appartiene a chi vive in modo sregolato fra droghe e denaro, come gran parte delle curve degli stadi, a Napoli in particolare. Dove gli fu addirittura dedicato un altarino all’interno del quale in una teca era custodito un suo capello.
Da allora, come tutte le stelle in caduta, come Napoleone a Sant’Elena, Diego ha collezionato diverse sospensioni per uso di cocaina, la più famosa, per positività al test antidoping al mondiale americano, quando sembrava che fosse nuovamente in grado di prendere per mano la sua nazionale.
Al pari di Best, Garrincha, Gigi Meroni, Hugo “El Loco” Gatti, tutti genio e sregolatezza, Maradona ha acceso la fantasia degli appassionati diventando un mito anche se poi nella vita fu tutt’altro che un modello da seguire.
Capace di gesti deplorevoli come il primo mancato riconoscimento del figlio avuto da Cristina Sinagra a Napoli o le controversie con il fisco italiano, ma anche di prese di posizioni carismatiche quando strinse forti amicizie con personaggi leggendari e scomodi come Castro e Chavez, Maradona è soprattutto stato unico, e per questo non si può far a meno di ricordarlo con l’affetto dei figli rispetto a un padre immaturo ma affascinante…
Auguri, Diego!

Saluti. Cronache dal Corona virus. 15.

Oggi ho salutato i miei ragazzi di Quarta. Ragazzi che conosco bene, alcuni da cinque anni almeno, e gli ho dato appuntamento esattamente fra tre mesi. Ora, è proprio strano come si alternino le stagioni in quest’ultimo, particolare anno. Tre mesi. Quanto una stagione. Tre mesi, quanto il tempo che è trascorso da quando, quel 4 marzo, ci eravamo salutati per rivederci il giorno successivo. Ho cercato di ricordare cosa avessimo fatto esattamente quel mercoledì. Mi sono sforzato, a lungo, di disegnare i particolari di una giornata che allora era trascorsa nella più assoluta normalità. E poi mi sono ricordato. Quel giorno era successo di tutto. Alla prima ora, mentre ancora quei ragazzi eternamente svogliati si svegliavano appena, stropicciandosi gli occhi, avevo parlato delle Ultime lettere di Jacopo Ortis. Perché l’avevo fatto? Una crudeltà del genere doveva avere una motivazione chiara, ancorché contingente. Comunque, dopo una breve pausa, dovevo essermene reso conto perché avevo preso a parlare della nascita del romanzo, così, a braccio, leggendo passi di Defoe, citando le riviste dell’epoca, proiettando brevi documentari sulla nascita delle rotte commerciali in Inghilterra. Affascinandoli. E, per una volta, interessandoli a una materia che avevano sempre trovato terribilmente noiosa. Ecco il motivo per cui mi ero accanito quella mattina. Quell’inguaribile avversione della classe alla letteratura, che tanto mi indignava, soprattutto la sera, quando, ripensandoci, mi arrovellavo su di essa e promettevo esemplari vendette. Eppure, in classe, quel risentimento si era trasformato in empatia. Oggi, i ragazzi hanno dato le ultime verifiche. È stata una passerella di esposizioni stentate, dettate unicamente dalla fretta di chiudere prima della successiva videolezione. Oggi è finito l’anno, ma a Settembre si ricomincia. In classe.

Oggi la Quinta non l’ho salutata. Ci rivedremo tra dieci giorni. Forse anche la settimana prossima, per rincuorarci a vicenda. Prima di incrociarci fisicamente all’Esame. Ieri gli esperti ci hanno spiegato come. Sembrava il piano di un’esercitazione militare. Il responsabile della Sicurezza appariva preoccupato, schiacciato quasi dagli obblighi che l’ultima ordinanza sulle misure di contrasto alla diffusione del Covid gli aveva fatto cadere addosso. Si trattava di garantire quattro postazioni con ingressi e uscite differenziate, diceva, nonché processi di sanificazione estenuanti ogni qualvolta ogni pedina di questo complesso gopang si sarebbe spostata. Di fronte alle giustificate obiezioni dei suoi colleghi lui ribadiva ostinatamente la necessità, da parte del candidato, di arrivare a scuola senza alcun oggetto se non il documento personale, al massimo una pen drive e una bottiglietta d’acqua sigillata. Ho sofferto per lui. Ho sofferto per me, pensando all’obbligo della mascherina, ai tragitti obbligati da percorrere, alla reclusione nell’aula d’esame, ma soprattutto a quei due metri che mi divideranno dai ragazzi, privandomi dell’abbraccio che ho sempre regalato a un futuro che ci avrebbe definitivamente diviso. Con la classe non ho parlato di questo, c’era da comprendere il dramma dell’Albatros e dei rondinini. Smussare i giudizi che negli anni avevano aggiunto banalità ai versi sorti spontaneamente dagli animi feriti di quei poeti ingenui.Con la classe ci rivedremo la settimana prossima, e anche quelle A e quelle O impresse sugli schermi ci faranno sempre pensare alle vocali di un giovane ebbro che predicava a Parigi piuttosto che alle sigle di un esame segnato dalle regole e dalla paura. Lì segneremo il distacco tra un anno che non vogliamo comunque si chiuda e un’appendice oscura, misteriosa, che ci fa sentire più cavie che eroi.

Fine Covid. Cronache dal Corona virus. 14.

Oggi ho pensato a una delle conseguenze in fondo meno gravi di questa anomala, lunga fase di didattica a distanza.

Ho pensato a quando, a maggio, le lezioni in presenza, tra fragranza d’ascelle e inevitabile stanchezza da sforzo prolungato, ancorché ai nostri occhi ingiustificato, evocavano nei nostri alunni con urla laceranti le sospirate vacanze.

Ora, al massimo, ci sarà un laconico “ragazzi, oggi, se il calendario non ci inganna, siamo arrivati all’ultima videoconferenza… ciao, ciao, ci vediamo fra tre mesi, non so ancora come…”

Triste.

Così mi sono stufato di parlare di pandemia.

Voglio pensare che a quello che il mondo era prima ci si possa tornare e pure presto, e benché anch’io abbia fatto la mia parte, perché davvero in quei giorni mi sentivo protagonista di qualcosa di personale che forse non proverò più, ora basta. Basta, perché è come se con l’inizio della fase 2 quelle emozioni abbiano perso il loro valore originario. E poi non c’è più ironia, forse è colpa del Covid stesso, si legge di molta gente che s’offende ancora se si mette in dubbio l’incontrastata forza del virus, quasi fosse una loro questione personale. E così ho pensato di cosa potrei parlare, e mi è venuto in mente il fatto che oggi non ho potuto vedere le Frecce tricolori perché avevo una videointerrogazione che non potevo rimandare, e non potevo rimandarla perché, nonostante fuori brillasse il sole, la gente fosse quasi tutta senza mascherina e i ristoranti continuassero ad aprire i loro spazi, noi eravamo ancora tutti legati agli orari improrogabili della Didattica a distanza.

Dunque? E’ proprio impossibile riuscire a non parlare di questa pandemia e delle sue conseguenze? E così mi viene un dubbio, che forse per noi insegnanti la Pandemia non sia ancora finita, sino al 17 di giugno almeno, quando riceveremo uno alla volta i coraggiosi superstiti di questo disgraziato anno scolastico per la prova più importante della loro vita, l’esame di maturità. Ancora tre settimane, ma allora almeno voglio pensare che tutto tornerà come prima. Una volta per tutte.

Una timida eroina.

Il 27 Settembre del 1871, centoquarantasei anni fa, nasceva Grazia Deledda (sarà registrata soltanto il giorno successivo al Tribunale dello Stato Civile di Nuoro), la maggiore scrittrice sarda, insignita addirittura, prima donna in Italia, del Premio Nobel.

Il padre, Giovanni Antonio Deledda, era laureato in legge, ma non esercitava la professione. Agiato imprenditore e possidente, si occupava di commercio e agricoltura; si interessava di poesia e lui stesso componeva versi in sardo, aveva fondato una tipografia e stampava una rivista. Fu sindaco di Nuoro nel 1863. La madre era Francesca Cambosu, donna di severi costumi e dedita alla casa; educherà lei Grazia, facendola seguire privatamente, guidandola in una preparazione da autodidatta e selezionando le persone utili alla sua formazione.

Grazia era una donna piccola, insicura, soprattutto della sua bellezza, che in verità le mancava proprio. Ma la determinazione, l’ambizione, tutte sarde, quelle sì, le possedeva, dalla più giovane età, sempre china sui libri, a leggere, a copiare modelli e caratteri di un mondo che lei, figlia di un ricco possidente autoritario, non conosceva per contatto diretto. Nell’epistolario con Angelo De Gubernatis, studioso del folklore e orientalista, Grazia descrive la sua come una famiglia borghese ma paesana, che però le permette di usare molte libertà, soprattutto nello scrivere e nel leggere ciò che vuole e ricevere a casa sua qualunque amico.

Qualche anno più tardi, la famiglia venne colpita da una serie di disgrazie: il fratello maggiore, Santus, abbandonò gli studi e divenne alcolizzato, e il più giovane, Andrea, fu arrestato per piccoli furti. Il padre morì per una crisi cardiaca il 5 novembre 1892 e la famiglia dovette affrontare difficoltà economiche.

Il 22 ottobre del 1899, dopo un breve viaggio a Cagliari, le si schiuse quel mondo fino ad allora soltanto sognato. Si era appena interrotta drammaticamente una relazione e a Grazia Nuoro ormai apparve come un luogo primitivo. La scrittrice, benché giovane, aveva già pubblicato sei romanzi e diversi racconti, tutti con Case editrici del Continente. La Via del male aveva avuto persino una positiva recensione da parte di Capuana. La sua era stata una vocazione curata, conquistata con il lavoro e la privazione degli affetti sociali. In quel periodo Grazia era volubile, forse stanca, ma un che di barbaricino nel suo carattere non si poteva certo escluderlo. Eppure, quando a un ricevimento dalla sua padrona di casa, donna Maria Manca, conobbe il suo amore di una vita, l’intendente di Finanza Palmiro Madesani, lei parve accendersi improvvisamente di incontenibile vitalità e affetto. Dopo un breve scambio di corrispondenza, i due si sposarono. Palmiro era un uomo bello, disinvolto, pacato, e lei di più non poteva desiderare.

Arrivati a Roma, passarono dodici anni prima che la coppia arrivasse alla dimora definitiva, un villino immerso nel verde in via Porto Maurizio, che la scrittrice fece arredare da un ebanista sassarese, Gavino Clemente. La cura della casa, unita alla scrittura ininterrotta per tutta la sera, però, la sottrasse totalmente, nel giro di poco tempo, a tutti i suoi cari e in particolare al marito. Nelle estati tra il 1908 e il 1911 Grazia si recò a Nuoro senza il marito: ancora una volta dal suo epistolario ne risulta una moglie riconoscente al marito per la bontà dimostrata nel lasciarle quell’autonomia che pur a tratti la fa sentire in colpa.

Difficile definire la poetica della Deledda: non fu né una Verista, né una Decadente, piuttosto fu molto attaccata alle tradizioni della propria terra, la Sardegna. Ci fu soprattutto in lei la volontà di fondare su queste tradizioni la sua ricerca della propria identità, in particolare attraverso la narrazione d’invenzione, e ispirandosi spesso a personaggi minori che lei rendeva universali. Il suo rapporto con Nuoro, i suoi abitanti, la sua famiglia, specie la parte debole, rappresentata dai due fratelli e dalla sorellina, è complesso, diviso tra il malessere causato dai pettegolezzi nei suoi confronti e un’attrazione quasi arcana per la sua terra. E infatti, tra tutte le critiche, quella che la irritò maggiormente fu proprio quella di un nuorese, Leopoldo Carta, che l’accusò di riadattare nei suoi romanzi nient’altro che contos de foghile… racconti del focolare. Non è vero, sostenne lei… il contenuto dei suoi romanzi era unicamente ispirato alla realtà!

C’è poi da dire che, per lei, l’arte e il desiderio di compiacere il più possibile il grande pubblico convissero sempre, anche se, in particolare nei confronti degli incarichi giornalistici, fu più insofferente e vi cedette soltanto perché spesso erano pagati molto bene.

La sua opera fu comunque apprezzata da Giovanni Verga, mentre con Luigi Pirandello regnò sempre una reciproca diffidenza: il romanzo Suo marito, che Pirandello scrisse nel 1911, ne fu un clamoroso esempio… la descrizione del marito della scrittrice, così premuroso e ironico, nacque forse proprio a causa dell’invidia che quel rapporto moderno suscitava in lui, che invece a casa sua ormai viveva l’inferno.

Il successo dei drammi di Pirandello la spinsero a calcare anche lei le scene, e Grazia si misurò con il teatro anche se poi, dopo due sostanziali fiaschi, nel pieno della moda della cultura popolare sarda, mise in scena addirittura un’opera lirica, La Grazia, musicata da Michetti, e che ebbe un discreto successo.

Quando, sul finire del ’27, dopo diverse indiscrezioni arrivò la notizia del Nobel, la Deledda si apprestò diligentemente a partire per Stoccolma, in treno e con non poche recriminazioni sui costi del viaggio. A Stoccolma, tra un appuntamento e l’altro del complesso protocollo, Grazia fu ritratta soprattutto per la sua timidezza e la sua cura della famiglia, anche se lei si ribellò a questa etichetta in nome della consapevolezza necessaria a un artista e della sua opera citò soprattutto i personaggi della sua terra e i romanzi che le erano più cari: Elias Portolu e Canne al vento.

Al rientro dal viaggio, incontrò Mussolini e lei si comportò con il massimo realismo: così, quando il Duce le chiese cosa potesse fare per lei, lei lo pregò di liberare dal confino un suo concittadino. La sua ultima intervista fu del ’35 e lei vi ribadì la sua distanza dalla critica e la vicinanza ai suoi lettori. In seguito a un intervento di rimozione di un cancro al seno, si tuffò ancora di più nel lavoro, e grazie a Gavino Gabriel registrò la sua voce per la Discoteca di Stato. Quando, poco dopo, per le complicazioni del male morirà, resterà di lei soltanto questa registrazione e le poche immagini della cerimonia del Nobel insieme al marito.

Domani è un altro giorno.

Domani è un altro giorno, ultima fatica di Giampaolo Cassitta, uscita ai primi di marzo edita da Arkadia, proprio all’inizio della pandemia, è un’opera diversa di un autore, già narratore di trame gialle e del mistero italiano, ma anche scrittore sensibile e delicato, come già ampiamente dimostrato ne Gli ultimi sognano a colori, racconto della vita coraggiosa, intensa e a colori di padre Salvatore Morittu, colori che sono la chiave di tutto, che illuminano la vita, improvvisamente, quando la luce è un piccolo francescano che appare, provvidenzialmente, per tante persone ormai respinte dall’indifferenza, dalla malattia, dalla morte. Un libro profondo ma allo stesso tempo difficile da raccontare, quello, perché rappresentava la sintesi poetica di un’esistenza ricchissima di spunti e illuminazioni.
Domani è un altro giorno, è invece, ma solo apparentemente, una storia facile da narrare, perché intima e sincera come poche, nel suo essere una lettera diretta a una madre malata, privata dei suoi ricordi, e insieme un viaggio nella memoria che quei ricordi vuole aggiungere. Attorno alla melodia sentimentale della storia, lo scrittore sovrappone più piani, legati temporalmente e intimamente a essa, e ci regala tanti capitoli di una vita che non è solo sua ma di tutti noi. Dalla morte del papà, fortuita, all’assassinio di John Kennedy, ai film di Sergio Leone, letti tra una visita al cimitero e l’altra, in un rincorrersi tra le tombe mimando il biondo e il cattivo, al primo giorno di scuola, che quelli della nostra generazione ricordano tutti con un senso di dovuta sacralità. Fino al momento che sublima ogni storia, anche quella triste e malinconica di una piccola famiglia privata del padre… un attimo, apparentemente insignificante, che però dà una svolta, che permette di vivere egualmente, anche con l’assenza serrata gelosamente nel cuore. E allora sparisce il lutto esibito, si prende gusto alle cose, si esulta per una Cinquecento che una Ferrari proprio non è, ma è tutta tua, è la voglia di uscire, finalmente, da un tunnel.
La compiuta definizione di quel viaggio, non più orfano del capofamiglia, ha un crescendo ritmato dagli eventi, alcuni epici, altri privati, ma sempre disegnati dall’ostinata memoria della madre, e ora che lei convive con un morbo che “ha cominciato a pasticciare le date, confondere i nomi”, l’autore sente il bisogno di scandirli e ripeterli, quasi in una sorta di amorevole risarcimento rivolto a lei, la fonte di tutto.
Domani è un altro giorno è un inno di speranza nella vita, capace di cancellare ogni male dal cuore dei suoi attori. Da leggere e condividere, senza remore, perché, con questo libro, Cassitta si conferma scrittore a tutto tondo, capace di provocare legittimi interrogativi ma anche di commuovere sinceramente fin nella nostra più profonda intimità.

Amicizia. Cronache dal Corona virus. 13.

Oggi, dopo 64 giorni esatti di clausura, sono uscito. Ho preso il coraggio a due mani, anzi a quattro mani (a proposito, a quante mani si prende il coraggio?) e mi sono messo seduto. Ora o mai più mi sono detto. Stavo disteso sul divano da un’ora a pensare alle ultime lezioni finite, alle riunioni andate, a quelle da affrontare, ai libri ancora da leggere, e ho mollato tutto. Ho scosso Matteo dalla sua rete di clausura domestica e dai suoi giochi subdoli, di cui è prigioniero come migliaia di altri bambini che da mesi non hanno più una vita sociale, scolastica, ludica, sportiva, e l’ho convinto a seguirmi. Ho preso pantaloni, camicia e piumino e siamo usciti. Fuori c’erano 25 gradi, ma a me sono sembrati francamente di più. Ricordavo ancora i primi di marzo e la brezzolina leggera che chiedeva di coprirsi da capo a piedi. Per un attimo avevo anche pensato che il piumino non bastasse. E invece mi sbagliavo. È stato lì che ho capito che il tempo per me s’era fermato per più di due mesi. Mentre scendevo le scale a piedi mi emozionavo ancora al pensiero che la primavera fosse in arrivo, e per un attimo ripensavo all’ultima sconfitta del Cagliari con la Roma, a quella maledetta doppietta di Kalinic, alla discussione che avevo appena avuto col collega sul fatto che questo cosiddetto Corona virus non sarebbe mai arrivato in Europa. Poi, mentre aprivo il portone e vedevo le strade parzialmente vuote, realizzavo che forse, quel virus, c’era arrivato e ci sarebbe rimasto per molto tempo ancora. Mi sono tolto il piumino. Sono rimasto con la mia ridicola camicia a palline, che al lavoro va messa sempre sotto il maglione d’ordinanza, e ho camminato. Diritto. Verso il Porto. Come ho sempre fatto. E mentre incontravo sempre più gente che s’affacciava timidamente agli incroci, mantenendo a fatica e in fondo controvoglia la distanza di sicurezza, formavo con loro una scia che procedeva sicura verso un punto, tra le caserme della Marina e il quartier generale di Luna rossa, dove ci aspettava un magnifico assembramento, proprio di fronte al primo lembo di mare da due mesi almeno, senz’alcun senso di colpa, per nessuno. È cosi che ho scoperto che siamo a maggio e che manca meno di un mese alla fine della scuola. Due mesi al mare. E per un attimo ho sorriso. Insieme a tutti i miei compagni di marcia.

Finalmente. Da lunedì, dopo due mesi e mezzo di imposizioni regolate da precise norme, anche se non sempre di concerto, tra governo, comuni e regioni, si potrà per tutti finalmente riprendere a frequentare gli amici. Già due settimane fa il termine congiunti aveva suscitato non poche reazioni ironiche sull’interpretazione da attribuire alla parola, ma se possibile il termine amici è ancora più ambiguo. Certo, non bisognerà esibire alcuna autocertificazione, ma cosa testimonierà effettivamente la volontà di frequentare proprio gli amici? Il sorriso. Io credo che quando finalmente sul viso delle persone, fiaccate da questi tre mesi, che alla fine saranno tali, di prigionia, comparirà stabilmente il sorriso, saremo sicuri di essere finalmente sicuri di esser riusciti a riveder la luce, e ciò grazie soprattutto agli amici.Ognuno sceglierà questa forma di libertà dell’animo, nelle forme in cui lo potrà rendere felice, già da domani, o dopodomani, magari partecipando a un seminario online di una classe di scrittura della Holden oppure entrando in chiesa, ma con l’arrivo dell’estate sarà sicuro già d’aver ricostruito la sua libertà. Incontrare gli amici, credo, significhi questo, e in questo senso rappresenta veramente tutto.

La gioia fa parecchio rumore.

Questo secondo, atteso romanzo di Sandro Bonvissuto, edito sempre da Einaudi nella collana Supercoralli, comincia con un breve trattato sull’amore. Sì, perché i libri di Sandro son così, non si limitano a raccontare una storia. La spiegano, e lo fanno con la leggerezza di un palpito che proviene dall’animo e che investe, inspiegabilmente, tutto ciò che scrive. Perché Sandro è così, vero, e non si metterebbe a scrivere ciò che non sente. Sia il dolore, il ricordo, l’amicizia, l’amore, la vita, il calcio, la squadra del cuore, non importa, perché tutto, la vita stessa, comincia quando comincia l’amore.
E così capita che l’acquisto di un divano dia il là alla storia che canta l’amore per Roma e la sua squadra.
In tutti i libri di Sandro c’è un oggetto che crea un legame tra tutti coloro che condividono un sentimento forte, siano le mura di un carcere o di una scuola, una bicicletta, un frigorifero… qui gli oggetti sono tanti, perché l’amore qui è assoluto, senza barriere, ma non può non avere un inizio da quel luogo dove un’intera famiglia spesso condivide la passione per la squadra del cuore. Perché, come ci dice l’autore, soprattutto tra padre e figlio non si possono tifare due squadre diverse. E il rischio che ciò avvenga è da scongiurare a tutti i costi. A costo di aggrapparsi alla teoria della trasmissione dei caratteri ereditari o ai piselli di Mendel. Poi capita che ogni timore sia superfluo, e il protagonista maturi una graduale adorazione per la squadra del destino, dalla collezione delle figurine dei calciatori ai riti della radio e della Tv seduti sul divano di casa, o al bar quando a casa arrivavano i parenti a rovinare la festa.
Adorazione che tocca il suo apice proprio nel momento più tragico di quella storia, a un passo dal baratro della B, quando si è pronti a far di tutto pur di scongiurare il fallimento, ed entrare così nella magica categoria de noantri. La sottile linea giallorossa che separa dalla nuova violenza contrapposta con l’altra squadra della città, a cui non si può essere pronti… soprattutto quando porta alla morte, anche se alla morte di un tuo avversario.
Il mondo che ci racconta Bonvissuto è un mondo mitico, che ha come confini il Fiume, la città e lo stadio, e ha al suo centro il bar, luogo simbolico per eccellenza perché raggruppa tutti gli altri.
Quando il tenore di questo mondo subisce delle variazioni, bisogna sempre andare a controllare, e si deve andare allo stadio, dove tutto ha origine. Come quando a Roma arriva lo straniero e ha un nome impronunciabile, come i fiumi che portano dal sud alla foresta amazzonica, ma un numero, il 5, considerato perfetto sin dalla notte dei tempi, e porta una gioia che fa parecchio rumore. Rumore quanto una parola che mai si era registrata prima, scudetto, una parola vietata in un ambiente destinato serenamente a identificare la propria passione nella sconfitta, conservatore, legato ai propri simboli, ma che si sublima solo e sempre allo stadio. Perché lo stadio, come ci dice Bonvissuto, è “l’unico luogo al mondo dove puoi vedere insieme gente che prega e gente che bestemmia, felice e triste, chi vuole vivere con chi vuole morire…”
Poi è soltanto una lunga e intima cavalcata verso quell’unica parola vietata a questo poema eroico d’altri tempi.
E così, come in un rito ciclico, perso nel silenzio del mito, si finisce nuovamente con l’amore, l’amore che mette d’accordo tutti e che vorresti non finisse mai.

Smart working e distanziamento sociale. Cronache dal Corona virus. 12.

Smart working. Letteralmente lavoro intelligente. In realtà lavoro svolto da casa, senza alcuna possibilità di uscire, di confrontarsi con la realtà viva, senza orari, con regole labili e strumenti spesso inaffidabili. Per noi insegnanti l’illusione di riprendere la vita normale si è infranta contro la necessità di continuare in questo regime lavorativo innaturale, dispendioso, logorante. Il lockdown è finito ma io in tre giorni non sono riuscito a metter piede fuori di casa, non sono stato in grado di vedere il colore del mare. La verità è che la necessità di fronteggiare lo stato d’emergenza spinge il governo a legittimare lo smart working senza accordo, senza regole. E nel futuro potrebbe diventare un comodo strumento di sottomissione delle masse lavorative più difficili da gestire. La verità è che non ricordo più i volti dei miei studenti, non sono più in grado di leggere tra le pieghe del viso i drammi tipici della loro età, non ho più gli strumenti, quelli antichi, per aiutarli. E mi aggrappo all’icona dei loro avatar per credere ancora in questo lavoro…

Oggi, dopo 64 giorni esatti di clausura, sono uscito. Ho preso il coraggio a due mani, anzi a quattro mani (a proposito, a quante mani si prende il coraggio?) e mi sono messo seduto. Ora o mai più mi sono detto. Stavo disteso sul divano da un’ora a pensare alle ultime lezioni finite, alle riunioni andate, a quelle da affrontare, ai libri ancora da leggere, e ho mollato tutto. Ho preso pantaloni, camicia e piumino e sono uscito. Fuori c’erano 25 gradi, ma a me sono sembrati francamente di più. Ricordavo ancora i primi di marzo e la brezzolina leggera che chiedeva di coprirsi da capo a piedi. Per un attimo avevo anche pensato che il piumino non bastasse. E invece mi sbagliavo.È stato lì che ho capito che il tempo per me s’era fermato per più di due mesi.Mentre scendevo le scale a piedi mi emozionavo ancora al pensiero che la primavera fosse in arrivo, e per un attimo ripensavo all’ultima sconfitta del Cagliari con la Roma, a quella maledetta doppietta di Kalinic, alla discussione che avevo appena avuto col collega sul fatto che questo cosiddetto Corona virus non sarebbe mai arrivato in Europa. Poi, mentre aprivo il portone e vedevo le strade parzialmente vuote, realizzavo che forse, quel virus, c’era arrivato e ci sarebbe rimasto per molto tempo ancora.Mi sono tolto il piumino. Sono rimasto con la mia ridicola camicia a palline, che al lavoro va messa sempre sotto il maglione d’ordinanza, e ho camminato. Diritto. Verso il Porto. Come ho sempre fatto. E mentre incontravo sempre più gente che s’affacciava timidamente agli incroci, mantenendo a fatica e in fondo controvoglia la distanza di sicurezza, formavo con loro una scia che procedeva sicura verso un punto, tra le caserme della Marina e il quartier generale di Luna rossa, dove ci aspettava un magnifico assembramento, proprio di fronte al primo lembo di mare da due mesi almeno, senz’alcun senso di colpa, per nessuno. È cosi che ho scoperto che siamo a maggio e che manca meno di un mese alla fine della scuola. Due mesi al mare. E per un attimo ho sorriso. Insieme a tutti i miei compagni di marcia.

Nelson. Cronache dal Corona virus. 11.

La fine del lockdown si avvicina e su Fb le polemiche sui rischi che la curva del contagio torni a crescere si accendono. Scontate.

Ieri la piccola figlia di un’amica è uscita in carrozzina. La mia amica ha raccontato che guardava ogni cosa come per la prima volta. Attirava continuamente l’attenzione della madre, felice.

L’altro ieri un amico mi ha chiamato, scosso. “Ho chiesto a mio figlio di dieci anni di uscire, mi ha guardato e mi ha risposto che preferiva continuare a giocare alla Play…”

Tutti noi stiamo soffrendo. C’è chi lo mostra, chi no, magari ci prova anche un sottile, indecifrabile gusto, ma nessuno può avere ragione. Perché non può esistere polemica sulla sofferenza.

Sessanta giorni. Trascorsi dolorosamente a contare le ore che dividono un giorno dall’altro, senza la prospettiva di un’uscita definitiva da questo tunnel opaco fatto di ripetitività, stanchezze e allucinazioni. Trascorsi a correre nel lungo corridoio per ore, provocando le reazioni divertite di Marci, Giovanni e Matteo.

Dicono che nei primi diciotto anni di detenzione trascorsi a Robben Island, un’isoletta davanti a Cape Town, Nelson Mandela fu sottoposto a condizioni molto dure. Celle minuscole, visite rare e brevi, cibo scarso, pessimo, sempre uguale.
Il lavoro forzato era estenuante. Passò i primi cinque anni a spaccare pietre nel cortile. Poi, per 13 anni, a scavare in una cava di calce o a raccogliere alghe fra gli scogli. Ma Nelson era un uomo dal fisico straordinario. Nelle pause tra una sessione di lavoro e l’altra, lui ogni giorno correva un’ora, sul posto, in cella. Negli ultimi anni di carcere trasformò la corsa in camminata. E sopravvisse.

Io ho un fisico e una mente fragile. Somiglio più a Forrest Gump. Non per niente gli eroi nascono ogni cent’anni. Ma corro.

Me ne faccio una ragione. Penso a domani, quando potrò tornare a camminare, e sorrido.